“Ama la vita più della sua logica, solo allora ne capirai il senso”

Fëdor Dostoevskij

Si narra che un giorno Francesco d’Assisi vide un muratore e gli chiese: “Padrone mio, che fate?” Quegli rispose: “Faccio muri da mattina a sera”. Con la sua abituale mansuetudine Francesco chiese ancora: “E perché fate muri tutto il giorno?” Rispose il muratore: “Per guadagnare quattro soldi”. “E perché volete guadagnare dei soldi, fratello mio?” continuò a dirgli Francesco.

Per vivere” fu la risposta. “E perché vivete voi?” fu la semplicissima domanda di Francesco. Ma il povero muratore non seppe cosa rispondere.

In un primo tempo, la lettura di questo aneddoto non ha catturato la mia attenzione, più tardi, però, alcune esperienze mi hanno spinto a farne oggetto di riflessione personale.

Già, perché viviamo?

So che la ricerca di una risposta a tale interrogativo, che riguarda il senso della vita, impegna da sempre lo spirito dell’uomo, in ogni stagione dell’esistenza. Si tratta di una ricerca laboriosa, che assume intensità particolare ogni volta che avvengono dei cambiamenti significativi a livello di tutte le dimensioni personali, da quella corporea a quella sociale, da quella emotiva a quella spirituale. Non mi sorprende la varietà delle risposte, spesso contraddittorie, a tale domanda, perché ognuno esprime la sua opinione sul senso della vita partendo dalla propria esperienza, maturata in differenti contesti, dalla famiglia alla scuola, dalla comunità ecclesiale all’ambiente di lavoro.

Ma è proprio questa molteplicità di punti di vista che mi spinge a rivolgere a me stesso la domanda indirizzata da Francesco al muratore: “Perché vivi?”. Le risposte che, durante le varie stagioni della mia esistenza, ho cercato di dare a questo coinvolgente interrogativo, hanno subito continue modificazioni. Infatti, se l’educazione ricevuta e la scelta di vita compiuta mi hanno portato a ritenere che la mia esistenza trova il suo senso nella relazione con il Signore che mi ha chiamato ad una vocazione consacrata a lui e al prossimo, questo non significa che tale orizzonte di senso sia sempre stato chiaro e indiscusso. La sfida più impegnativa l’ho incontrata nel progressivo passaggio dal nozionale all’esperienziale, dall’affermazione verbale al vissuto. Passaggio che esige tempo, disciplina e apertura all’azione dello Spirito.

A volte, quando durante le celebrazioni liturgiche risuona il canto “Tu sei la mia vita, altro io non ho”, oppure quando sento proclamare il versetto del salmo “Signore, tu sei l’unico mio bene”, non riesco a trattenere il sorriso. Un sorriso benevolo verso me stesso, frutto di una presa di coscienza dei miei limiti, ma anche richiamo efficace a riconoscere che la relazione con Dio mi appagherà nella misura in cui sarà messa, non solo intellettualmente ma anche affettivamente, al vertice della scala dei valori che danno senso alla mia vita.

Ciò non mi induce a trascurare altri fattori che contribuiscono a farmi ritenere che la vita vale la pena di essere vissuta. Mi riferisco agli affetti che mi legano a tante persone, alle attività che compio per mettere a frutto i miei talenti, al progresso compiuto per essere sempre più in armonia con me stesso, all’aiuto prestato a chi ha bisogno, alle piccole gioie della vita quotidiana: un momento conviviale, una conversazione piacevole, una gita, la lettura di un bel libro, la contemplazione della natura e dell’arte, il superamento di un conflitto o di una prova, la vittoria della mia squadra di calcio… Vissute alla luce della relazione con il Signore, tali esperienze diventano gradini che mi aiutano a proseguire con gioia nel mio cammino di crescita umana e spirituale.

So che la domanda sul senso della vita mi accompagnerà fino al termine dei miei giorni, offrendomi l’occasione di affinare le mie risposte. Non è forse questo è il destino dell’uomo, come lo esprimono le parole di Sant’Agostino che mi sono tanto care: “Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”?